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Yasunari Kawabata - IL MAESTRO DI GO
titolo originale: MEIJIN - 1942
(traduzione di Cristiana Ceci - I ediz. italiana: SE novembre 1991, collana "Prosa del 900" - ISBN 88-7710-227-6)
Yasunari Kawabata (1899-1972). Premio Nobel per la Letteratura 1968.
"Il Go, proprio come il No e la Cerimonia del Tè, affonda le proprie radici nella gloriosa, raffinata tradizione del Giappone".
LA TRAMA Il libro è la la cronaca romanzata di una partita. Il narratore è Kawabata stesso in qualità di esperto di Go e cronista di gioco. È un incontro di particolare importanza. Si tratta della ‘partita di addio' al Go realmente giocata nel 1938 da SHUSHAI Hon'inbo, l'Invincibile Maestro, contro il maestro OTAKE. Shushai era il 21º e ultimo Meijingodokoro, un titolo molto più onorifico di Grande Maestro di scacchi. Esso aveva piuttosto il significato di Ministro del Go e capo ereditario della massima dinastia di giocatori, gli Hon'inbo. Dal canto suo, lo sfidante Otake aveva prevalso fra i sei più forti maestri esistenti, in uno straordinario torneo durato un anno. La partita era d'importanza storica, ben più di un match per il mondiale di scacchi. Con il ritiro di Shushai, infatti, il Go sarebbe passato da un'era tradizionale a una nuova era sportiva, e il titolo di Meijin sarebbe stato spogliato dai suoi connotati rituali. Kawabata segue l'incontro per il quotidiano Tokyo Nichinichi . La partita è immane: 15 sedute, 5 mesi di gioco, 20 e 35 ore di tempo di riflessione consumato sulla scacchiera. Anzi, sul goban. Al termine di una seduta la mossa segreta, analogamente agli scacchi, viene messa in busta; sarebbe inconcepibile, per l'etica giapponese, farsi aiutare nelle analisi da altri maestri durante le pause. Dopo mesi di lotta il Maestro Shusai, anziano e integro tradizionalista si piega, vinto dal giovane e forte Otake, che impersona il Giappone moderno, sportivo, meno rispettoso delle tradizioni. Alla sfida è appesa l'esistenza stessa del Maestro, la cui forza vitale, dopo l'enorme sforzo e la sconfitta, si esaurisce. La figura del vecchio, piena di dignità e carisma ma anche di imperscrutabile sofferenza, diventa veramente tragica. |
"Nel Go o nello Shogi non ci si deve sforzare di comprendere la personalità dell'avversario. Scrutare l'animo di chi ti sta di fronte, scondo lo spirito del Go, è la via sbagliata. Il Maestro, invece, si perde completamente nel gioco, in un'immersione totale". |
Nel romanzo vien fuori in tutta l'evidenza possibile l'orientalità del narratore, dei protagonisti, della società. I cerimoniali rigorosi, l'importanza maniacale attribuita ai particolari, l'etichetta, l'autocontrollo ferreo sul mare di passioni, il clima che pare sereno ma in realtà è opprimente.
Kawabata narra gli eventi tecnici e psicologici con minuzia appassionata. Le sue descrizioni del vecchio maestro e amico sono colme di affettuosa venerazione, le ritualità sono illustrate con grande rispetto, e la sua prospettiva di commentatore alla sfida è di assoluta imparzialità.
Lo stile del romanzo, che inizia dalla morte di Shushai e poi torna indietro a ricalcare gli avvenimenti, è molto particolare: spoglio, essenziale, malinconico.
Dal lato tecnico il procedere della partita è illustrato con ben 16 diagrammi commentati. Al termine del libro (226 pagine) sono aggiunte indispensabili appendici: un glossario e quattro scritti esplicativi sulle regole e sull'arte del Go, a cura di Raffaele Rinaldi.
RUOLO DEGLI "SCACCHI"
L'ho già detto, e lo ripeto. Nelle mie recensioni il termine "scacchi" è da intendersi in senso lato. Ovvero quello di gioco da tavoliere (e la scacchiera è un tipo particolare di tavoliere), fra due giocatori che si sfidano in abilità tattica e strategica, avendo ciascuno l'informazione completa di ciò che accade in campo. È chiaro a questo punto che io includo tutte le forme eterodosse di scacchi, quelle ortodosse ma non-FIDE (Shoghi, Xiangqi...); tutti i tipi di Dama, ecc. e anche il Go, che si gioca su un tavoliere più complesso ed ha un obiettivo differente dagli scacchi: la conquista di territorio, e non la cattura del Re avversario.
Ora, questo romanzo - relativamente al Go - è di importanza letteraria grandissima. Quando si illustra in un intero romanzo una sola partita, destinata a segnare la fine dell'esistenza di un onorabile Maestro, vuol dire che il gioco di scacchiera è d'importanza strutturale. Scacchi d'ambientazione, dunque, al massimo livello.
Durante le pause della sfida, tutti i maestri si riposano giocando a Shoghi, gli scacchi giapponesi (nei quali pure si matta il Re) ma la cosa è considerata, appunto, un riposo. Questo per far comprendere la scala di valori che occupano i due giochi nella cultura giapponese.
Per qualcuno il Go sta agli scacchi come la filosofia sta alla computisteria. Quella del Go è, per i suoi cultori - Kawabata compreso - una "Via", un codice guerriero come il Bushido. Il libro trascende dal gioco in quanto tale e sonda in realtà la filosofia del Go.
I primi due romanzi che mi vengono invece in mente come quantità di gioco presente sono La Regina degli Scacchi per la letteratura non di genere, e L'Impero di Azad per la SF. Ma in questi due storie sono raccontate *più partite*, di cui quella finale è la più importante, dal momento che c'è in palio un Titolo, o un Impero. Invece il romanzo di Kawabata è imperniato su di un'unica partita: il Meijin, dal carisma religioso, contro una forza moderna emergente.
In palio, l'onore supremo.
Alcune edizioni del romanzo. L'ultima a destra è quella recentissima Einaudi (luglio 2012)
Per far meglio comprendere lo spirito del romanzo ho scelto due brani.
Il primo è un momento interlocutorio, rispetto alla vicenda principale. Kawabata, in veste di cronista sportivo, viaggia da casa sua alla sede degli incontri, e sul treno conosce un americano "che sa giocare". L'occidentale lo sfida, e lui accetta. Kawabata descrive lo spirito del Go con delle considerazioni dalle quali traspare ben altro che il giudizio sulla loro distanza culturale.
I due hanno differenti kyu (livello di forza dei dilettanti), e dato che il kyu di Kawabata è VII mentre quello dell'americano è XIII, ovvero è più debole (i gradi scendono all'aumentare della forza) l'autore deve concedergli un vantaggio prestabilito.
"Iniziai col dargli sei pietre. Mi raccontò di come avesse preso lezioni di Go dall'Associazione, giocando anche con personalità di spicco; era infatti molto preparato sulle forme, ma giocava in modo precipitoso, senza concentrazione. Sembrava a suo agio anche quando perdeva, e affrontava una sconfitta dietro l'altra con l'espressione sorniona e distratta di chi ritiene una sciocchezza sforzarsi più di tanto per vincere. Scendeva in campo con tattiche ben precise, seguendo quanto gli era stato insegnato, e partiva splendidamente per poi perdere subito la grinta. Se lo respingevo un po' indietro o lo coglievo di sorpresa crollava senza opporre resistenza, senza neppure provare a contrastarmi: era come lottare contro un uomo tanto robusto quanto irresoluto, ed arrivai ad avere la sgradevole sensazione che in me fosse connaturata un'indole malvagia. Non era questione di abilità bensì di volontà di reazione. Mancava in lui il senso di competitività. I giapponesi al contrario, per quanto deboli, sono sempre animati dallo spirtito agonistico, è impossibile trovare in loro una simile arrendevolezza. L'americano contraddiceva lo spirito stesso del Go. Ed io provavo nei suoi confronti un senso di estranietà, sentendo tutto il peso delle differenze culturali. Andammo avanti a giocare in quel modo per più di quattro ore, da Ueno fino ai pressi di Karuizawa, e nonostante il mio avversario continuasse a perdere non colsi in lui alcun moto di sconforto, finché alla fine fui io a sentirmi battuto da tanta disinvolta invulnerabilità. La sua innocenza e la sua debolezza mi fecero sentire crudele. ... Per lui doveva essere come litigare in una lingua straniera imparata solo sulle grammatiche, o forse non prendeva seriamente il gioco; sta di fatto che era palese la diversità fra lui e i giapponesi. Mi chiesi se gli occidentali non fossero per natura poco inclini verso questo tipo di giochi. Ad Hakone avevo più volte sentito dire che nella Germania di Dueball c'erano ormai più di cinquemila appassionati di Go, e che anche in America il gioco stava iniziando a diffondersi. Malgrado questo, e nonostante la consapevolezza di quanto fosse incauto prendere come esempio quel principiante americano, ritenevo ugualmente che in occidente lo spirito del Go venisse negato. In Giappone è una "via", un'arte che trascende la nozione stessa di forza e gioco. In esso confluiscono la mistica e la nobiltà dell'Oriente... giocando ora con un'americano, percepii la mancanza di tradizione del Go nel suo paese". |
moderno goban
Nel secondo brano c'è un piccolo assaggio delle atmosfere di estrema tensione nascosta.
"Ovviamente vittoria e sconfitta potevano dipendere anche da un solo punto. E se i bianchi non ne concedevano neppure due, i neri erano costretti ad agire con decisione. Otake si contorse e per la prima volta comparve una vena bluastra sul suo volto infantile. Il rumore del suo ventaglio di diffondeva insolente.
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...non mi ero ancora accorto, da dilettante, che quella 130a aveva decretato la sconfitta dell'Invincibile Maestro. Avevo già sentito dire che l'ultima parte di una partita, il suo approssimarsi alla fine, era così crudele da risultare intollerabile... |
Questa bella foto di scena proviene dall'opera teatrale Il MAESTRO DI GO , rappresentata al Teatro Filarmonico di Verona (ottobre 2008) con testi, musica e regia di Alessandro Melchiorre ed Elisabetta Brusa, liberamente ispirata al nostro romanzo.
I temi trattati in questo grandissimo romanzo sul Go non sono senza rapporto con il suicidio di Kawabata stesso, simile a quello di Yukio Mishima: la protesta finale contro il declino dei valori tradizionali nel Giappone moderno.
A me il romanzo è piaciuto molto. E credo che sia una fonte molto significativa per chi voglia esplorare la diversità di atteggiamento spirituale, sociale, rituale e pratico fra la via del Go e quella degli Scacchi.